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Sezioni

La pittura

Il primato degli Uffizi

Parlare di pittura a Firenze significa parlare degli Uffizi. Il rilievo quantitativo delle pagine dedicate alla raccolta più famosa al mondo non può concorrere con nessun altro luogo specifico e la molteplicità di approcci alla sua descrizione fornisce la prova della sua importanza, oltre che indizi interessanti sul carattere del viaggiatore e dell'epoca che lo esprime. La particolarità che rende gli Uffizi un luogo così speciale agli occhi dei visitatori non è solo la ricchezza degli oggetti presenti ma la concezione di spazio espositivo ordinato sistematicamente e destinato al pubblico. C'è chi, già istruito dalla comparazione con altre collezioni museali, segnala, alla vista della galleria, uno sgradevole colpo d'occhio: e per il cattivo ordine dei quadri, che rivela un gusto ormai sorpassato, e per le loro pessime condizioni di conservazione, alcuni talmente anneriti dal tempo che neppure si possono distinguere le figure. Tale è il giudizio del nobile francese Bergeret de Grancourt (1774), sebbene si debba tener presente che egli, non da meno degli altri grandtourists, percorreva l'Italia dell'arte in cerca di modernità. Incapace di apprezzare il passato (agli Uffizi perciò si dedicherà piuttosto a Rubens e Van Dyck che a Raffaello), va infatti in visibilio per il soffitto di Luca Giordano a Palazzo Riccardi. Valéry del resto, molti anni dopo (1828), afferma che «i tre corridoi e le venti camere della galleria non hanno per niente l'imponente colpo d'occhio della nostra galleria del Louvre» e sembra echeggiare Bergeret, che sentiamo dire «cerco un paragone ma non vedo niente che l'avvicini alla galleria di Düsseldorf». Ma fatta la tara al parere tecnico sull'esposizione e soprattutto alla difficoltà interpretativa diffusa che assegna ai primitivi un ruolo di quasi generale sottostima, la magnificenza, ricchezza, varietà e articolazione della galleria danno adito in generale ad un apprezzamento condiviso.
La descrizione degli Uffizi è perciò anche uno dei luoghi dove meglio si mette alla prova l'abilità descrittiva dell'autore e dove più frequentemente il lettore desiste, sopraffatto da un torrente di dati e parole. Quasi ogni testo di viaggio, infatti, qualunque sia la sua mole e intenzione, ha una sua sezione 'staccabile' dedicata alla descrizione del museo più famoso del mondo. Nei pur diversi tracciati, immancabile il corridoio vasariano per gli autoritratti dei pittori più eminenti; assolutamente in primo piano la sala ottagonale della Tribuna, cuore delle collezioni, con le pitture e sculture più rinomate. Inossidabile e del tutto immune dalla logica evoluzione del gusto la Venere dei Medici posta proprio al centro della Tribuna (alla cui contemplazione moltissimi si dedicano; fra questi Montesquieu (1728) che ne resta rapito, sebbene la descrizione molto minuziosa dei dettagli anatomici che ce ne offre, e che rivela le lunghe ore di considerazione ammirata, finisca coll'inibirne il fascino impercettibile). Sono citati anche i gabinetti dei bronzi moderni e antichi, lo studiolo, la sala della Niobe. Un esempio di grande lucidità, chiarezza e capacità descrittiva è quello offerto dall'abate di Saint-Non (1761), entusiasta ammiratore della galleria, che riesce a descriverne la struttura espositiva con nitidezza e ad accennare ai capolavori in essa contenuti in modo da suscitare curiosità e far scatenare la fantasia (è quello che il lettore chiede, in fondo, anche al libro di viaggio, per potervi prendere parte attiva). L'abate descrive l'aspetto esteriore del palazzo («ha la forma di un grande rettangolo, e costituisce una piazza affiancata su tre lati da portici») e la sua organizzazione interna, con la galleria che gira tutto intorno all'edificio e le camere diverse che vi immettono «e che possono essere considerate veri e propri tesori indipendenti», dei quali elenca le ricchezze. Si sofferma, come d'obbligo sulla stanza della Tribuna «in cui è esposta come una scelta di tutto ciò che i granduchi hanno acquisito di più prezioso», elencando separatamente le «quattro delle più antiche statue che si conoscono» (tra cui la Venere dei Medici), i quadri, dei quali «c'è un capolavoro di ogni maestro, tanto di scuola italiana che fiamminga», i manufatti, dato che «per non lasciare nulla da desiderare, un grande armadio racchiude una grandissima quantità di vasi e coppe fatti con materie prime preziosissime». Aggiunge infine, aprendo un capitolo sull'alto artigianato fiorentino, che «tutto il primo piano della costruzione ospita artigiani che preparano quelle opere famose di pietre dure incastonate, che imitano con un'arte di grande perfezione i fiori, le conchiglie, gli animali [...]».

Altre predilezioni dei viaggiatori

Anche la galleria di Palazzo Pitti è tra le raccolte citatissime. I visitatori sono naturalmente attratti dalle collezioni, dato che offrono loro la possibilità di organizzare più facilmente la visione per il lettore (rispetto ai singoli pezzi situati in luoghi diversi) con criteri spaziali o cronologici o monografici, a seconda delle scelte individuali. Un elenco per pittori è quello per cui opta Valéry (1828), che della galleria del palazzo cita le opere (con il titolo e qualche raro dettaglio: ad esempio, di Tiziano, il Ritratto del cardinale Ippolito dei Medici «in costume ungherese»): quelle di Salvator Rosa, Tiziano, Pietro da Cortona, Raffaello, Rembrandt, Rubens, Michelangelo, fra gli altri. L'abate di Saint-Non (1761) dichiara che a Palazzo Pitti i Medici hanno raccolto «una delle più belle collezioni di quadri che ci sia in Europa, ed è certamente tra quelle scelte meglio: hanno acquistato da tutte le chiese i migliori quadri e ne hanno fatto venire altri dei più famosi maestri di ogni scuola».

Il camposanto di Pisa

Anche le altre città della Toscana hanno i loro luoghi preferiti, con logiche molto differenti tra testi. Rispetto alle incontrollabili varianti personali emerge però, con le stesse proporzioni ingombranti degli Uffizi, il profilo del celebre cimitero monumentale di Pisa, che assorbe le ambizioni degli scrittori. Gli affreschi in particolare occupano pagine e pagine di dettagli e a volte di tediose descrizioni. Le voci, numerose ma uniformi, mostrano con una monotonia eloquente l'allineamento degli osservatori su un'opinione svalutativa dell'arte primitiva, un convincimento che appare qui in maniera eclatante rispetto ad analoghi ma meno compatti rilevamenti in altri luoghi e nella stessa Firenze. Dall'immancabile diceria sulla presenza della terra che i pisani avrebbero portato dalla Palestina (ecco il perché della denominazione Campo Santo) e che corromperebbe i corpi nel giro di ventiquattr'ore, si passa nella descrizione, piuttosto che alla struttura architettonica, del resto molto semplice, alle opere d'arte, scultura e soprattutto pittura, che il Campo Santo custodisce al suo interno. Il chiostro che disegna è lastricato di marmo e i muri sono coperti di pitture a fresco, le cui attribuzioni, tradizionalmente ripetute da testo a testo (Giotto, Orcagna, Benozzo Gozzoli) tardarono ad una verifica scientifica. Le descrizioni spesso affermano che da un lato vi fossero episodi tratti dalla vita dei Padri, dall'altro episodi del Vecchio Testamento. Pitture 'antiche', comunque, che per questo suscitano giudizi alquanto negativi. Montesquieu, nel 1728, riteneva che quello fosse il luogo giusto «per osservare molto bene il cattivo gusto di quel tempo»; De Brosses (1740), affermava che quei pittori avessero rappresentato «le storie della Bibbia in modo assai bizzarro e ridicolo, assolutamente brutto ma molto curioso»; Cochin (1749-51) creava addirittura una connessione esplicita fra antichità e bruttezza: «questo chiostro è decorato da pitture antiche, che risalgono agli albori della pittura, e sono quindi di scarsa qualità»! Nonostante ciò l'impressione è forte e, quantitativamente, rilevante nella scrittura. Alcuni testimoni, meno schierati, si avventurano a dare delle descrizioni: «[...] è rappresentata la morte dell'uomo e lo stato in cui si riducono i cadaveri: si vedono tre tombe spalancate; nella prima c'è un corpo che comincia a decomporsi; nell'altro uno quasi completamente decomposto, e che comincia a spogliarsi della sua carne; nella terza non restano più che le ossa scarnificate. Diversi cavalieri che sembrano di rango esaminano questi cadaveri; uno di loro si tappa il naso; è evidente che essi discutono dell'effetto della terra di questo cimitero, che si dice esser stata portata da Gerusalemme: singolare reliquia, ma del tutto conforme al gusto del dodicesimo secolo» (Richard, 1761). Fino a che non si registrano nella scrittura i segni di un cambiamento critico e Gibbon (1764) può affermare: «sono opere brutte, ma bisogna rifarsi al tempo in cui esse erano rare e preziose. Il gusto e la grandezza di uno Stato consiste nell'incoraggiare i migliori artisti del periodo»; e può concedere che: «per quanto la maniera sia asciutta, l'esecuzione scorretta, il disegno generalmente zoppicante, il colore innaturale, c'è tuttavia del merito nell'espressione e il tutto rimane come un curioso monumento agli sforzi compiuti da questa nobile arte, subito dopo il suo revival». Con Lalande (1765) sembra che si faccia strada un apprezzamento: «[...] si notano già in essi un drappeggio ed un disegno delle pieghe molto buoni, benché ancora scarni, e delle testa dai tratti non privi di realismo; fra gli altri soggetti [...] è notevole soprattutto la vergognosa di Campo Santo; è una ragazza che guarda un giovane nudo facendo finta di coprirsi il volto [...]»; fino a che Forsyth (1802) addirittura si duole del cattivo stato in cui versano quelle preziose testimonianze: «alcuni di questi affreschi sono rimasti esposti all'aria aperta per 500 anni e le opere più antiche si stanno disfacendo per l'umidità. E' un peccato che un paese pieno di antiquari e di incisori debba lasciar perire monumenti simili senza un ricordo!», apponendo fra l'altro una nota polemica che ci dà bene il polso di quale fosse la 'febbre' antiquaria dei visitatori dell'Italia: «quanto sono superiori questi ai rimasugli grossolani dell'arte anglo-gotica, che i nostri disegnatori sono condannati ad andare a cercare per quei collezionisti rimbambiti, sempre alla ricerca delle ossa spolpate dell'antichità!». Da allora l'interesse da denigratorio diventa se non altro curioso (come nella descrizione molto tecnica di Rehfues, 1802), con quella tipica concessione alla storicità del passato, gradino necessario per edificare la bellezza dell'arte successiva, che diviene una scorciatoia comune per l'inclusione delle opere d'arte dell'antichità in un catalogo di luoghi 'da vedere'. Così Castellan (1804), che afferma di essersi recato a Pisa quasi al solo scopo di visitare il Campo Santo perché in esso «possiamo formarci un'idea esatta della rinascita della pittura» grazie alla contiguità delle opere dei primi pittori moderni qui riunite. Tale contiguità «ci permette di giudicare della filiazione delle idee pittoriche e del loro successivo sviluppo [...] modello per i grandi artisti del sedicesimo secolo, ai quali hanno fornito gli strumenti per innalzare la pittura al massimo grado di perfezione [...]».

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