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Locande e osterie di posta

La locanda, un microcosmo

Dopo la carrozza è la locanda il microcosmo per eccellenza dove si annullano le distanze e si appianano le differenze di ceto e di borsa. Ruoli e pratiche del vivere quotidiano sembrano soggetti ad una momentanea sospensione, la parola circola con meno impaccio rispetto ai protocolli abituali, la tavola conviviale costituisce l'occasione per incontri di nuove specie.

Locande buone e cattive

La cattiva fama delle locande di posta italiane è ampiamente testimoniata, sebbene esistano voci di controcanto.

In via generale nel nord Italia, e in particolare lungo una trafficata via di comunicazione, il comfort era certamente più alto rispetto alle sperdute contrade meridionali. Montaigne (1581) ad esempio, nella sua sosta a Rovereto, rimpiange la pulizia tedesca ma apprezza le cortine di tela ai letti e induce a notare interessanti distinzioni come quelle fra la civiltà del piumino, nordica, e quella della coperta di lana, italiana, oppure quella fra l'area della birra e del vino (mediterranea quest'ultima), che non conosce l'ubriachezza. A Levanella - fra Firenze e Arezzo - loda il lusso di una piccola osteria dove servono il cibo in piatti di peltro, come nei più lussuosi alberghi parigini.

Particolarmente famigerate, invece, le locande di Radicofani sulla via Francigena dopo Siena (cui è dedicato uno spazio descrittivo notevole e orientato al romanzesco), Pietramala (Appennino), Camicia (Trasimeno). Nel sud d'Italia, Roland de la Platière nel 1777 «osserva che la locanda si riduce a una stalla enorme alla cui estremità si fa il fuoco e si cucina senza camino né fornelli, dove si mangia e ci si corica su tavolacci appoggiati a file di mattoni messi per ritto al centro della stalla, dietro ai cavalli, o nella mangiatoia quando c'è posto» (Brilli, 2004).

Una descrizione

Il vasto piazzale delle stazioni di posta è un piccolo brulicante mondo su cui si affacciano, insieme alla locanda, le scuderie, l'officina del maniscalco, la biglietteria, il deposito bagagli, le rimesse delle carrozze. La contiguità delle bestie conferisce all'agognato luogo di sosta un inconfondibile lezzo di letame, come dice Howells in Italia nel 1640 (cui fa concorrenza - secondo Lady Blessington nel 1826 - il tanfo di cavolfiore bollito nei più lussuosi alberghi fiorentini); la conformazione del locale, inizialmente unico per vitto e alloggio, lo rende fumoso e sporco, condannato alla promiscuità (si mangia a tavola coi propri servi), all'estrema povertà di arredi. Le voci dei viaggiatori raccontano di finestre senza vetri in stanze senza camini, porte senza chiavi, letti sporchi ma spruzzati d'acqua (e dunque umidi) per far credere che siano freschi di bucato, condizioni igieniche generali precarie, assenza di latrine: così che Samuel Sharp (1766) si lamentava di dover sopportare sotto gli occhi e sotto il naso, per tutta la notte, ciò che sarebbe stato opportuno «rimuovere e consegnare all'oblio» (Brilli, 2004).

Accorgimenti utili

I rimedi consigliati erano molti, il principale, che era anche un lusso, quello di viaggiare portandosi dietro un letto. La lettiera poteva essere smontata e ripiegata in poco spazio. Bisognava comunque arieggiare la stanza, immergere le gambe del letto nell'acqua al vetriolo per evitare gli assalti di sgraditi animaletti, smontare i baldacchini per evitare corse di sgradevoli quadrupedi, spruzzare di lavanda o fornirsi di pastiglie di canfora per volatili vari. Altro consiglio sempre valido è quello di portare con sé un marchingegno di ferro con il quale chiudere la porta dal di dentro, una serratura da camera che raccomandano Evelyn nel 1644 come la Starke due secoli dopo.

Cibo e altri pericoli

L'altro capitolo afferente il racconto della sosta, quello del cibo, presenta tratti meno inquietanti, limitandosi le sorprese meno gradevoli alle locande fuori mano ed a quelle dei centri minori.

Vi è tutto un filone poi che racconta di accordi segreti fra locandieri e briganti, col caso tristemente famoso delle locande dello stato pontificio e di quello borbonico.

Gli ospizi dei valichi

Un caso a parte è rappresentato dagli ospizi dei valichi dove il soggiorno si rivelava per lo più gradevole. L'assistenza al Gran S. Bernardo, per esempio, era gratuita per tutti, senza distinzione. Era sufficiente iscriversi nell'album dei visitatori e lasciare una mancia ai monaci tuttofare che, all'occorrenza, si occupavano anche di recuperare i dispersi e li rianimavano strofinandoli con la neve. Per i forestieri di qualche riguardo potevano persino trovarsi delle stufe. I posti erano molti e il cibo genuino e buono. Niente che facesse rimpiangere gli alberghi delle grandi città (Astengo, 1992).

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