Il viaggio agrario
Di 'viaggio agrario' è possibile parlare solo a proposito del Settecento avanzato, quando i temi della agricoltura divennero tra i principali agli occhi della società. Al 1753 risale infatti, per iniziativa di Ubaldo Montelatici, la fondazione dell'Accademia dei Georgofili, nata allo scopo di far «continue e ben regolate sperienze, ed osservazioni, per condurre a perfezione l'Arte tanto giovevole della toscana coltivazione». Questa associazione pubblica ebbe ripetutamente affidati dal governo granducale dei Lorena lo studio e la risoluzione di grossi problemi agricoli del tempo. Le riforme adottate da Pietro Leopoldo, l'abolizione dei 'dazi protettori' dell'agricoltura e l'affermazione della libertà dei commerci, trovarono nei Georgofili convinti sostenitori e collaboratori preparati. Questo del libero commerciare fu, infatti, uno dei principi inalienabili di tutte le battaglie economiche e politiche degli accademici. Il clima di lavoro e il rinnovato interesse sui temi agrari fu registrato dai viaggiatori, spesso col tono di relazione scientifica.
Un interesse affiorante (XVII secolo)
E' vero che un'attenzione agli aspetti dello stato dell'agricoltura affiora qui e là, nelle scritture, anche prima delle relazioni professionali. Per esempio Deseine (1699), discorrendo di Arezzo, non manca di citare i lavori di bonifica della Val di Chiana voluti dal Granduca che ha convertito le rive paludose in terreni produttivi che gli fruttano «centomila scudi di rendita».
Si afferma una vera passione (XVIII secolo)
Ma è nel secolo dei lumi che i viaggiatori divengono capaci di leggere il paesaggio oltre la sua ammaliante bellezza per comprenderne punti forti e criticità.
Peter Beckford (1787) annota il decreto cardine per la vita economica della Toscana che nel 1767, stabilendo il libero commercio dei grani e poi del bestiame, metteva fine ad una plurisecolare politica oppressiva delle città sulle campagne. Egli tuttavia si mostra scettico sull'utilità generale dei provvedimenti dato che ne è derivato, a suo dire, l'impoverimento delle città e la rovina delle industrie. Forsyth (1802) propende invece per un giudizio nettamente positivo, plaudendo la liberazione dell'agricoltura dai vecchi vincoli.
Osservando come fosse ben coltivata la Toscana, Duclos, nel 1767, sottolinea significativamente: «là dove è coltivabile», e introduce il tema della difficoltà di coltivazione delle terre toscane. Il lungo lavorio dei naturalisti, dei proprietari terrieri, dei funzionari granducali, aveva infatti strappato ad un terreno piuttosto secco e sterile tutto il possibile, e questo ben prima che l'impegno divenisse programma scientifico ed economico sotto lo stemma della Accademia dei Georgofili. Anche Lalande (1765) si sofferma a descrivere le pianure della Toscana considerandone piuttosto l'aspetto utilitaristico che quello dell'amenità del paesaggio. La fertilità è dato comune, e, per lui, la bellezza ne è una conseguenza. Lalande trova una spiegazione politica affermando che è il governo ad incoraggiare gli abitanti a ricercare produzioni e metodi che meglio si adattino alle diverse zone «di modo che ci sono terreni dove si raccoglie fino a tre volte l'anno». Vi erano state, soprattutto nel passato, cause fisiche che ostacolavano il pieno fiorire della agricoltura, come inondazioni e venti, da cui erano poi seguite carestie e mortalità. Ma «sembra che il principe regnante vi abbia posto rimedio con sagge precauzioni, liberalizzando il commercio e rinnovando gli sforzi per far progredire l'agricoltura».
Insomma l'aspetto ridente e ordinato della campagna non poteva ingannare né sul lavoro che era costato, né sulle conseguenze sociali che esso esigeva. Young (1789) lo dirà chiaramente affermando che l'insieme delle terre toscane non era di per sé favorevole alla coltivazione, che non soltanto il Valdarno ma gli stessi dintorni di Firenze, così lussureggianti e romantici, non erano adatti per natura ad una produzione così ricca (Bossi, 1993). Chateauvieux (1813), a sua volta, nota che le abitazioni dei contadini sono molto spartane e offrono una tavola meno che frugale, concludendo che la fertilità dell'Arno, duramente conquistata, è stata ottenuta a scapito dei mezzadri da cui nettamente si differenziano i proprietari terrieri che risiedono in città e che godono dei frutti di quegli investimenti. Lo stesso entusiasta Forsyth (1802) addita la condotta irresponsabile della nobiltà agraria che si arricchisce grazie a migliorie cui non ha dato alcun contributo: «costoro visitano di rado i loro possedimenti, ad esclusione della villeggiatura autunnale. E anche in quell'occasione non lo fanno per ispezionare e migliorare le loro terre, e nemmeno per godersi gli incanti della natura e i divertimenti campestri, ma per bighellonare attorno alla villa così come son usi bighellonare in città».